XVII Capitolo - Alleanza

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petite88
view post Posted on 29/12/2007, 23:21





17
Alleanza



«Bella?».
Sentii la voce morbida di Edward alle mie spalle. Mi voltai e lo vidi salire gli scalini del portico, con la sua solita eleganza, i capelli scompigliati dalla corsa. Mi strinse a sé, d'improvviso, come aveva fatto nel parcheggio, e mi baciò di nuovo.
Quel bacio mi spaventò. Edward era troppo teso, troppo rigido quando appoggiò le labbra sulle mie, come se avesse paura che non restasse più molto tempo.
Non dovevo pensarci, visto che nelle ore seguenti avrei dovuto comportarmi da essere umano. Mi allontanai da lui.
«Vediamo di superare indenni questa stupida festa», borbottai, senza incrociare il suo sguardo.
Mi prese il volto fra le mani perché lo fissassi.
«Non permetterò che ti succeda nulla».
Gli toccai le labbra con le dita della mano sana. «Non sono preoccupata per me».
«Perché non ne sono sorpreso?», borbottò tra sé. Fece un respiro profondo e poi sorrise dolcemente. «Pronta per festeggiare?», domandò.
Feci una smorfia.
Mi tenne la porta, cingendomi la vita con l'altro braccio. Restai basita per un minuto, poi scossi la testa.
«Incredibile».
Edward alzò le spalle. «Alice è sempre Alice».
L'interno di casa Cullen era stato trasformato in una discoteca di quelle che non esistono nella vita reale, ma soltanto in TV.
«Edward!», gridò Alice da dietro un altoparlante enorme. «Ho bisogno di un consiglio». Gesticolava indicando un mucchio di CD impilati. «Dobbiamo mettere musica conosciuta, o rassicurante? Oppure», e indicò un'altra pila di CD, «educarli a gusti migliori?».
«Vada per la rassicurante», si raccomandò Edward. «Non è detto che il buon esempio serva a qualcosa...».
Alice annuì seria e iniziò a buttare i CD educativi in una scatola. Mi accorsi che si era cambiata, indossava pantaloni di pelle rossi e un top di paillette. Le luci intermittenti rosse e viola illuminavano la sua pelle in maniera singolare.
«Non mi sento abbastanza elegante».
«Sei perfetta», dissentì Edward.
«Te la caverai», aggiunse Alice.
«Grazie», sospirai. «Credete davvero che verrà qualcuno?». Chiunque avrebbe notato il tono di speranza nella mia voce. Alice fece una smorfia.
«Verranno tutti», rispose Edward. «Muoiono dalla voglia di entrare nella misteriosa casa dei Cullen».
«Favoloso», mugugnai.
Non li potevo aiutare in nulla. Anche se sapevo che avrei smesso di dormire e che sarei diventata molto più rapida in tutto, dubitavo che sarei mai riuscita a essere efficiente quanto Alice.
Edward non mi lasciò nemmeno per un secondo, mi trascinò con sé anche quando salì a cercare Jasper e Carlisle per raccontare loro della mia intuizione. Li ascoltai terrorizzata mentre parlavano dell'imminente attacco all'esercito di Seattle. A Jasper non andava che gli avversari fossero in superiorità numerica, ma purtroppo non era riuscito a contattare nessun altro potenziale alleato, a parte la famiglia di Tanya. Non cercò di nascondere la disperazione, come avrebbe fatto Edward. Si vedeva chiaramente che non gli piaceva scommettere con una posta così alta.
Non potevo restare sola ad aspettare che gli altri tornassero a casa. Non ce l'avrei fatta. Sarei impazzita.
Suonarono al campanello.
Di colpo, tutto divenne irrealmente normale. Un sorriso perfetto, genuino e caldo rimpiazzò la tensione sul viso di Carlisle. Alice alzò il volume della musica e a passo di danza andò ad aprire la porta.
Era un gruppo di miei amici appena scesi dal Suburban di Mike, troppo nervosi o troppo timidi per arrivare alla spicciolata. Jessica fu la prima a entrare, Mike la seguì a ruota. Tyler, Conner, Austin, Lee, Samantha... persino Lauren, che entrò per ultima, con il suo sguardo critico da ficcanaso. Erano tutti curiosi e vennero sopraffatti dallo stupore quando si accomodarono nel salone addobbato come per un rave d'alta classe. La stanza non era vuota: tutti i Cullen avevano preso posto, pronti a mettere in scena la loro solita, perfetta farsa umana. Persino io, come loro, avevo la sensazione di recitare.
Andai a salutare Jess e Mike, nella speranza che l'inquietudine della mia voce passasse per agitazione. Prima che potessi raggiungere gli altri, il campanello suonò di nuovo. Feci entrare Angela e Ben e lasciai la porta aperta, perché Eric e Katie stavano salendo i gradini.
Non avevo tempo di lasciarmi prendere dal panico. Dovevo parlare con tutti e sforzarmi di essere sempre allegra, una buona padrona di casa. Sebbene la festa fosse anche in onore di Alice ed Edward, le congratulazioni e i ringraziamenti furono tutti per me. Magari perché i Cullen avevano un aspetto strano sotto le luci di Alice. O forse perché quelle luci creavano un'atmosfera vaga e misteriosa. Non era l'ambiente adatto a far sentire a proprio agio un normale essere umano, vicino a uno come Emmett. Lo vidi sorridere a Mike da una parte all'altra del buffet, i suoi denti brillarono sotto le luci rosse e Mike fece istintivamente un passo indietro.
Forse il proposito di Alice era proprio mettermi al centro dell'attenzione, un posto che a suo avviso avrei dovuto occupare più spesso. Provava sempre a farmi vivere secondo l'idea di esistenza umana che si era fatta lei.
La festa fu un successone, nonostante l'ansia generata dalla presenza dei Cullen, ma forse ciò diede solo un brivido in più alla serata. La musica era coinvolgente, le luci ipnotiche. A giudicare da quanto impiegò a svanire, pure il cibo doveva essere squisito. In poco tempo il salone fu stipato di gente, senza mai diventare soffocante. Probabilmente erano venuti tutti gli studenti dell'ultimo anno e quasi tutti quelli del penultimo. I corpi si muovevano al ritmo che rimbombava sul pavimento e pareva che la festa, da un momento all'altro, potesse trasformarsi in un ballo sfrenato.
Non fu difficile come avevo pensato. Seguii l'esempio di Alice, m'intrattenni a chiacchierare un minuto con ciascuno. Bastava poco per accontentare tutti. Di certo era la festa migliore che fosse mai stata organizzata a Forks. Alice era soddisfattissima: nessuno avrebbe dimenticato quella serata.
Feci il giro della stanza e tornai da Jessica. Chiacchierava eccitata, senza sosta, non ci si doveva nemmeno sforzare di ascoltarla perché non le importava che qualcuno le rispondesse. Edward era accanto a me e non mi lasciò sola un attimo. Mi teneva stretta per la vita, avvicinandomi e allontanandomi da sé in maniera impercettibile, a seconda dei pensieri che gli affollavano la mente, pensieri che probabilmente era meglio non conoscere.
Perciò mi preoccupai quando mi tolse il braccio dalla vita per allontanarsi.
«Resta qui», mi sussurrò all'orecchio. «Torno subito».
Non ebbi neppure il tempo di chiedergli il motivo della fuga e attraversò la folla con la solita grazia, quasi senza sfiorare i corpi accalcati. Lo fissai torva, mentre Jessica urlava sulla musica, tirandomi per il braccio, senza accorgersi che non l'ascoltavo affatto.
Lo vidi infilarsi nell'angolo buio dietro la porta della cucina, dove le luci brillavano a intermittenza. Si sporgeva verso qualcuno, ma per via della folla non riuscii a vedere chi fosse.
Mi alzai sulle punte dei piedi e allungai il collo. Proprio allora una luce rossa gli illuminò la schiena e scintillò sulle paillette del top di Alice. Le luci le sfiorarono il viso per mezzo secondo, ma bastò.
«Scusami un momento, Jess», mormorai sciogliendo il braccio dalla stretta. Non attesi una sua reazione e non mi preoccupai di averla offesa con il mio gesto brusco.
Mi feci largo tra i corpi, lasciandomi spingere in qua e in là. Qualcuno ballava. Corsi verso la porta della cucina.
Edward se n'era andato, ma Alice era ancora là, al buio, con lo sguardo vitreo: l'espressione vuota di chi ha appena visto con i suoi occhi un incidente terribile. Con una mano stringeva lo stipite della porta, come se avesse bisogno di tenersi a qualcosa.
«Che c'è, Alice, che c'è? Che hai visto?». La pregavo a mani giunte, implorante.
Fissava il vuoto. Seguii il suo sguardo e lo vidi incrociare quello di Edward, dall'altra parte della stanza. La sua espressione era fredda, dura come il marmo. Si voltò e sparì nell'ombra sotto la scala.
Proprio in quel momento suonò il campanello, dopo ore di silenzio, e Alice si voltò verso la porta, confusa e poi disgustata.
«Chi ha invitato i licantropi?», mi chiese arrabbiata.
Mi rabbuiai. «Colpa mia».
Ero convinta di aver ritirato l'invito. Tutto sommato, mai mi sarei immaginata che Jacob sarebbe venuto.
«Bene, allora te ne occupi tu, io devo parlare con Carlisle».
«No, Alice, aspetta!». Cercai di afferrarla per un braccio, ma se n'era già andata e la mia mano strinse l'aria.
«Mannaggia!», brontolai.
Lo sapevo. Alice aveva visto ciò che stava aspettando e io, onestamente, non credevo di reggere la tensione tanto da poter andare ad aprire la porta. Il campanello suonò di nuovo, a lungo: qualcuno lo teneva premuto. Voltai le spalle alla porta, con un gesto deciso, e perlustrai con lo sguardo la stanza buia, in cerca di Alice.
Poi mi diressi verso le scale.
«Ehi, Bella!».
Jacob aveva sfruttato un momento di tregua della musica per far tuonare la sua voce profonda. Malgrado i miei propositi, quando sentii pronunciare il mio nome alzai lo sguardo verso di lui.
Feci una smorfia.
Non era solo, i licantropi erano tre. Jacob era riuscito a entrare, affiancato da Quil ed Embry. Gli altri due erano tesissimi, si guardavano intorno come se fossero appena entrati in una cripta infestata da fantasmi. Embry teneva la porta con mano tremante e stava girato su un fianco, pronto a scappare.
Jacob mi salutava con la mano. Era più calmo degli altri due, anche se aveva il naso arricciato per il disgusto. Ricambiai il suo cenno di saluto - avrei preferito che fosse un addio - e mi voltai in cerca di Alice. M'infilai in uno spazio tra le schiene di Conner e Lauren.
Spuntò dal nulla, mi appoggiò una mano sulla spalla e fece per spingermi verso il buio della cucina. Sfuggii alla presa, ma a quel punto mi strinse il polso della mano sana per allontanarmi dalla folla.
«Che accoglienza!», commentò.
Scrollai via la mano e gli lanciai un'occhiataccia. «Che ci fai tu qui?».
«Mi hai invitato, te lo ricordi?».
«Nel caso in cui il mio gancio destro non sia stato eloquente, ti traduco il gesto in parole: era il mio modo per annullare l'invito».
«Non essere maleducata. Ti ho portato un regalo e tutto il resto».
Incrociai le braccia sul petto. Non volevo litigare con Jacob proprio in quel momento. Volevo scoprire cosa aveva visto Alice e di cosa stessero discutendo Edward e Carlisle. Allungai il collo per cercarli, sbirciando oltre Jacob.
«Riportalo dove l'hai comprato, Jake. Adesso ho da fare...».
Ma lui mi bloccò la strada, reclamando la mia attenzione.
«Non posso riportarlo indietro, non l'ho comprato in un negozio... l'ho fatto io. Mi ci è voluto anche parecchio tempo».
Distolsi di nuovo lo sguardo, ma non vedevo nessuno dei Cullen. Dov'erano andati tutti quanti? Scrutai la stanza buia.
«Oh, andiamo, Bell. Non far finta che io non ci sia!».
«Non sto facendo finta». Non li vedevo da nessuna parte. «Ascolta, Jake, al momento sono molto impegnata».
Mi mise la mano sotto il mento e mi alzò il viso. «Potrei avere la sua attenzione tutta per me almeno per qualche secondo, signorina Swan?».
Mi liberai dalla presa. «Non mi toccare, Jacob», sibilai.
«Scusa!», disse subito, alzando le mani in segno di resa. «Mi dispiace davvero. Anche per quel che è successo l'altro giorno. Non avrei dovuto baciarti in quel modo. Ho sbagliato. Credo... insomma, forse mi sono illuso che anche tu lo volevi».
«Illuso: non esiste aggettivo migliore!».
«Sii gentile. Potresti anche accettare le mie scuse, sai».
«Perfetto. Scuse accettate. Ora, se mi vuoi scusare tu un momento...».
«Okay», brontolò e la sua voce cambiò tanto da costringermi a smettere di cercare Alice per guardarlo bene in faccia. Fissava il pavimento, a occhi bassi. Sembrava quasi imbronciato.
«Forse è meglio se vai dai tuoi veri amici», disse con lo stesso tono di sconfitta. «Ho capito».
«Ehi, Jake, se dici così è un colpo basso», risposi scocciata.
«Ah, sì?».
«Dovresti saperlo». Mi avvicinai a lui e cercai di guardarlo negli occhi. Lui evitò i miei, rialzando la testa.
«Jake?».
Non reagì.
«Ehi, hai detto di avermi fatto un regalo, no?», chiesi. «L'hai detto tanto per dire? Dov'è?». Il mio tentativo di fingere entusiasmo non fu molto brillante, ma funzionò. Abbassò gli occhi e mi fece una smorfia.
Continuai con la mia goffa scusa e gli offrii la mano aperta. «Sto aspettando».
«Va bene», borbottò sarcastico. Frugò nella tasca posteriore dei jeans e ne estrasse un sacchettino di tessuto a trama larga, coloratissimo, legato con dei cordoncini in pelle. Lo posò sul palmo della mia mano.
«Che carino, Jake. Grazie!».
Sbuffò. «Il regalo è dentro, Bella».
«Ah».
I nodi mi davano qualche problema. Rassegnato, riprese il pacchetto e sciolse il laccio, tirando il cordino giusto. Tenni il palmo teso per prendere il sacchetto, ma lui lo capovolse e rovesciò qualcosa di argenteo sulla mia mano. Degli anelli di metallo tintinnarono, colpendosi l'uno con l'altro.
«Non ho fatto il braccialetto», ammise. «Soltanto il ciondolo».
A uno degli estremi del bracciale d'argento era allacciato un piccolo oggetto di legno. Lo presi tra le dita per osservarlo da vicino. La figurina riproduceva con dettagli precisissimi un lupo in miniatura, molto realistico. L'aveva intagliato in un legno marrone rossiccio, che richiamava il colore della sua pelle.
«È bellissimo», sussurrai. «L'hai fatto tu? Come?».
Si strinse nelle spalle. «Me lo ha insegnato Billy. Lui è più bravo di me».
«È difficile crederti», mormorai, rigirandomi il piccolo lupo tra le mani.
«Ti piace davvero?».
«Sì, è incredibile, Jake».
Sorrise, prima felice, poi stizzito. «Insomma, ho pensato che potrebbe aiutarti a ricordarti di me ogni tanto. Sai come si dice: lontano dagli occhi, lontano dal cuore».
Ignorai la sua insinuazione. «Vieni, dai, aiutami a metterlo».
Tesi il braccio sinistro, perché il destro era ancora steccato. Allacciò il gancetto senza problemi, nonostante sembrasse troppo piccolo per le sue grandi dita.
«Lo indosserai?», chiese.
«Certo che sì».
Mi fece uno di quei suoi sorrisi felici che mi piacevano tanto.
Lo ricambiai per un attimo, poi i miei occhi perlustrarono di nuovo la stanza, alla ricerca ansiosa di un segno di Edward o di Alice.
«Perché sei così distratta?», domandò Jacob.
«Non è niente», mentii cercando di sembrare presente. «Grazie del regalo, davvero. Mi piace tantissimo».
«Bella?». Aggrottò la fronte, gettando un'ombra profonda nei suoi occhi. «Sta succedendo qualcosa, vero?».
«Jake, io... no, non è nulla».
«Non mentire, lo sai che non ci riesci. È meglio se mi dici cosa sta succedendo. Certe cose dobbiamo saperle», disse lasciandosi scappare il plurale.
Probabilmente aveva ragione, i lupi dovevano sapere ciò che stava accadendo. Peccato che non fossi ancora sicura di cosa si trattasse. Soltanto Alice avrebbe potuto spiegarmelo, ma ancora non la trovavo.
«Jacob, te lo dirò. Lasciami solo capire cosa sta succedendo, va bene? Devo parlare con Alice».
Comprese e gli si illuminarono gli occhi. «La sensitiva ha avuto una visione».
«Sì, proprio quando sei arrivato».
«Ha a che fare con il succhiasangue che è entrato in camera tua?», domandò alzando la voce per la confusione della musica.
«In effetti, sì», ammisi.
Ci pensò su un minuto e inclinò la testa da una parte, mentre mi guardava in faccia. «Mi stai nascondendo qualcosa... qualcosa di importante».
Perché mentire di nuovo? Mi conosceva troppo bene. «Sì».
Jacob mi fissò per un momento, poi si voltò a cercare i suoi compagni, in piedi accanto alla porta, sulla difensiva e a disagio. Quando colsero la sua espressione, si mossero subito, sfilando agili tra gli invitati come se stessero ballando anche loro. Trenta secondi dopo erano accanto a Jacob e mi sovrastavano.
«Su, racconta», chiese Jacob.
Embry e Quil guardarono in faccia prima lui e poi me, perplessi e all'erta.
«Jacob, non so tutto». Mi guardai attorno, stavolta in cerca di aiuto. Mi avevano messo alle strette, in tutti i sensi.
«Dicci cosa sai, allora».
Incrociarono tutti e tre le braccia sul petto, contemporaneamente. Fu divertente, anche se il gesto sembrò molto minaccioso.
Proprio allora vidi Alice scendere le scale, la sua pelle bianchissima spiccava sotto la luce viola.
«Alice!», gridai sollevata.
Si voltò verso di me non appena la chiamai, malgrado le vibrazioni dei bassi soffocassero qualsiasi altro suono. Mi sbracciavo con foga e notai la sua espressione divenire torva non appena si accorse dei tre lupi che mi sovrastavano.
Fino a un istante prima, però, sul suo viso c'erano state tensione e paura. Incerta, aspettai che mi raggiungesse.
Jacob, Quil ed Embry arretrarono, a disagio, Lei mi cinse la vita.
«Ho bisogno di parlarti», mi sussurrò all'orecchio.
«Jake, ci vediamo dopo...», borbottai e ci allontanammo.
Jacob stese il suo lungo braccio per impedirci di proseguire e appoggiò la mano alla parete. «Ehi, non così in fretta».
Alice lo fissò, con gli occhi spalancati e increduli. «Scusa?».
«Diteci cosa sta succedendo», domandò con un ringhio.
Jasper apparve quasi letteralmente dal nulla. Un secondo dopo Alice e io eravamo incollate al muro perché Jacob ci impediva di muoverci. Jasper si avvicinò al braccio di Jacob, con un'espressione che faceva davvero paura.
Jacob ritrasse lentamente il braccio. Fu la scelta migliore, considerato che probabilmente non voleva perderlo.
«Abbiamo il diritto di sapere», borbottò Jacob e inchiodò Alice con uno sguardo.
Jasper s'intromise e i tre licantropi si misero sulla difensiva.
«Ehi, calma», dissi con una risata forzata e isterica. «Siamo a una festa, ricordate?».
Nessuno badò alle mie parole. Jacob fissava Alice, mentre Jasper inchiodava Jacob con lo sguardo. Alice si fece di colpo pensierosa: «Va bene, Jasper. Ha diritto di sapere».
Jasper non si rilassò.
Ero sicura che per la tensione mi sarebbe esplosa la testa. «Cosa vedi, Alice?».
Fissò Jacob per un secondo, poi si girò verso di me.
«La decisione è stata presa».
«State andando a Seattle?».
«No».
Mi sentii impallidire. Lo stomaco mi si chiuse. «Stanno arrivando», farfugliai.
I giovani Quileute ci guardavano in silenzio, cercando di interpretare ogni emozione nascosta sui nostri visi. Erano immobili, anche se non del tutto calmi. Le loro mani tremavano.
«Sì».
«A Forks», sussurrai.
«Sì».
«Per...?».
Mi fissò negli occhi e annuì. «Uno di loro stringe la tua camicia rossa».
Provai a deglutire.
Dalla sua espressione si capiva che Jasper non era d'accordo. Non voleva che si parlasse di queste cose davanti ai licantropi, ma aveva qualcosa da dire. «Non possiamo lasciarli avvicinare. Non abbiamo abbastanza forze per proteggere la città».
«Lo so», disse Alice, desolata. «Ma non importa dove li fermeremo. Saremo sempre in pochi, e alcuni di loro verranno a cercarci anche qui».
«No!», sussurrai.
La musica sovrastò la mia voce. Tutto intorno a noi, i miei amici, i vicini e gli invidiosi mangiavano, ridevano e si muovevano al ritmo della musica, senza sapere che stavano per trovarsi faccia a faccia con il terrore, con il pericolo, forse con la morte. Per colpa mia.
«Alice», la chiamai con un filo di voce. «Devo andarmene».
«Non è una soluzione. Non abbiamo a che fare con un segugio. Prima di tutto verranno a cercarti qui».
«E allora dovrò andargli incontro!». Se la mia voce non fosse stata così roca e tesa, sarebbe stato un urlo. «Se trovano quel che cercano, forse andranno via e non faranno male a nessuno!».
«Bella!», protestò Alice.
«Ora basta», esclamò Jacob con voce bassa ma decisa. «Cosa sta arrivando?».
Alice lo inchiodò con il suo sguardo di ghiaccio. «Vampiri. E sono parecchi».
«Perché?».
«Per Bella. È tutto quello che sappiamo».
«Sono troppi per voi?», domandò.
Jasper si risentì. «Abbiamo qualche vantaggio, cane. Sarà una lotta ad armi pari».
«No», disse Jacob, e un mezzo sorriso strano e fiero gli illuminò il viso. «Non sarà ad armi pari».
«Eccellente!», sibilò Alice.
Impietrita dalla paura, fissai i suoi lineamenti perfetti. La disperazione aveva ceduto il posto alla gioia.
Sorrise a Jacob e lui ricambiò.
«La visione è sparita, ovviamente», gli disse con voce soddisfatta. «È seccante, ma, tutto sommato, va bene così».
«Dobbiamo coordinarci», disse Jacob. «Non sarà facile per noi. Ma in fondo dovrebbe essere responsabilità nostra».
«Ora non esageriamo, però abbiamo davvero bisogno di aiuto. Non saremo troppo pignoli».
«Alt, alt, calma», li interruppi.
Jacob era chino su Alice, pronta all'azione. Entrambi erano accesi d'entusiasmo, ma con il naso arricciato per l'odore. Mi guardarono impazienti.
«Coordinarci?», ripetei a denti stretti.
«Non dirmi che vorresti tenerci lontani da tutto questo».
«Voi resterete fuori da tutto questo».
«La tua sensitiva non la pensa così».
«Alice... Digli di no!», insistetti. «Li uccideranno!».
Jacob, Quil, ed Embry scoppiarono a ridere.
«Bella», disse Alice con la sua voce confortante e tranquilla, «divisi, ci uccideranno tutti. Uniti...».
«Non avremo problemi», concluse Jacob. Quil rise di nuovo.
«Quanti sono?», chiese Quil impaziente.
«No!», gridai.
Alice non mi guardò nemmeno. «Dipende: oggi sono in venti, però stanno diminuendo».
«Perché?», chiese Jacob, incuriosito.
«È una storia lunga», disse Alice guardandosi intorno. «E questo non è il posto adatto per raccontarla».
«Più tardi?», Jacob insistette.
«Sì», gli rispose Jasper. «Stavamo già pianificando una... riunione strategica. Se volete combattere assieme a noi, avrete bisogno di addestramento».
I licantropi non furono granché contenti della seconda parte della frase.
«No!», urlai.
«Sarà davvero strano», disse Jasper pensieroso. «Non ho mai pensato di combattere insieme a dei licantropi. Non è mai successo prima, sono sicuro».
«Non c'è dubbio», confermò Jacob. Aveva fretta. «Dobbiamo tornare da Sam. A che ora ci vediamo?».
«A voi quando va bene?».
Tutti e tre alzarono gli occhi. «A che ora?», ripeté Jacob.
«Alle tre in punto?».
«Dove?».
«Nella foresta di Hoh, circa tre chilometri a nord della base delle guardie forestali. Se venite da ovest sarete in grado di seguire le nostre scie».
«Ci saremo».
Fecero per andarsene.
«Aspetta, Jake!», urlai. «Per favore! Non farlo!».
Si fermò e si voltò per sorridermi, mentre Quil ed Embry si dirigevano impazienti verso la porta. «Non essere ridicola, Bells. Mi stai facendo un regalo molto più bello di quello che ti ho fatto io».
«No!», urlai di nuovo. Il suono di una chitarra elettrica annegò la mia voce.
Non rispose e corse a raggiungere i suoi amici, che erano già usciti. Impotente, lo guardai svanire nel buio.
 
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