VI Capitolo - Svizzera

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petite88
view post Posted on 29/12/2007, 23:03





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Svizzera



Tornai a casa senza prestare molta attenzione alla strada, che risplendeva umida sotto il sole. Pensavo alla marea di informazioni che mi aveva dato Jacob, cercavo di metterle in ordine, di trovare a tutti i costi un senso. Malgrado il sovraccarico, mi sentivo più leggera. Guardare Jacob sorridere, discutere dei nostri segreti... Non era la perfezione, ma di sicuro andava meglio. Avevo fatto bene ad andare. Jacob aveva bisogno di me. E ovviamente, pensai socchiudendo gli occhi per la luce accecante, non c'era alcun pericolo.
Sbucò dal nulla. Un attimo prima, nel mio specchietto retrovisore non c'era altro che l'autostrada luccicante. Un attimo dopo, una Volvo argentata brillava appena dietro di me.
«Oh, merda», borbottai.
Pensai di accostare. Ma ero troppo vigliacca per affrontarlo. Speravo di poter guadagnare un po' di tempo per prepararmi... e per avere Charlie accanto come paraurti. Almeno l'avrebbe costretto a non alzare la voce.
La Volvo mi stava incollata. Tenni gli occhi dritti sulla strada.
Vile fino in fondo, guidai dritto fino a casa di Angela senza incrociare neanche una volta lo sguardo che, lo sentivo, stava quasi mandando a fuoco il mio specchietto.
Mi seguì finché non accostai davanti a casa Weber. Non si fermò e non guardò. Non volevo vedere la sua espressione. Appena scomparve feci di corsa il vialetto fino alla porta di Angela.
Ben venne ad aprire mentre bussavo, neanche mi stesse aspettando dietro la porta.
«Ehi, Bella!», disse sorpreso.
«Ciao, Ben. Ehm, c'è Angela?». Magari aveva dimenticato i nostri programmi. Rabbrividii all'idea di tornare a casa prima del previsto.
«Certo», disse Ben, e nello stesso istante Angela, in cima alle scale, mi chiamò. «Bella!».
Ben sbirciò alle mie spalle quando sentimmo il suono di un'auto sulla strada; il motore balbettò al semaforo e ne seguì un sonoro scoppio di ritorno. Non mi preoccupai: niente a che vedere con le fusa della Volvo. Doveva essere l'ospite che Ben stava aspettando.
«È arrivato Austin», disse Ben ad Angela quando gli fu accanto.
Un clacson echeggiò nella strada.
«Ci vediamo dopo», promise Ben. «Già mi manchi».
Buttò il braccio attorno al collo di Angela e le avvicinò il viso, per poterla baciare con trasporto. Dopo un secondo, Austin suonò di nuovo.
«Ciao, Angie! Ti amo!», strillò Ben mentre mi passava davanti.
Angela perse l'equilibrio, con il viso lievemente arrossato, poi si riprese e salutò finché Ben e Austin non scomparvero. Si girò verso di me e sorrise afflitta.
«Non so come ringraziarti, Bella», disse. «Dal profondo del cuore. Non soltanto salverai le mie mani dall'artrosi permanente, ma mi hai anche risparmiato due ore di film sulle arti marziali doppiato da schifo e pressoché privo di trama». Sospirò sollevata.
«Felice di esserti utile». Mi sentivo un po' meno spaventata, e respiravo meglio. Lì sembrava tutto così a posto. I drammi umani tanto semplici di Angela erano stranamente rassicuranti. Era bello sapere che da qualche parte la vita era normale.
Seguii Angela sulle scale fino alla sua stanza. Entrò facendosi strada fra i giocattoli. La casa era stranamente silenziosa.
«Dove sono i tuoi?».
«Hanno portato i gemelli a una festa di compleanno, a Port Angeles. Non posso credere che vuoi davvero aiutarmi. Ben ha detto che aveva la tendinite». La sua espressione era eloquente.
«Figurati», dissi, ma poi entrai in camera di Angela e vidi la catasta di buste in attesa.
«Ah!», esclamai. Angela si voltò verso di me con uno sguardo desolato. Ora capivo perché aveva rimandato e perché Ben aveva evitato l'incombenza.
«Pensavo che stessi esagerando».
«Magari. Sei ancora sicura di volerlo fare?».
«Mettimi al lavoro. Ho tutta la giornata a disposizione».
Angela divise la pila a metà sulla scrivania e posizionò fra me e lei la rubrica degli indirizzi di sua madre. Per un po' si sentì soltanto il rumore delle penne che graffiavano lievi la carta.
«Che cosa fa Edward stasera?», mi chiese dopo qualche minuto.
La mia penna affondò nella busta su cui stavo scrivendo. «Emmett è a casa per il weekend. Dovrebbero essere in giro per escursioni».
«Lo dici come se non ne fossi sicura».
Scrollai le spalle.
«Sei fortunata che Edward abbia fratelli con cui fare escursioni e campeggi. Non so cosa farei se Ben non avesse Austin per tutte le faccende dei ragazzi».
«Sì, tutta quella roba all'aperto non fa proprio per me. E poi non riuscirei mai a stare al loro passo».
Angela rise. «Anch'io preferisco le attività al chiuso».
Per un minuto si concentrò sulla sua pila. Scrissi altri quattro indirizzi. Con Angela non c'era mai bisogno di riempire le pause con chiacchiere senza senso. Anche lei, come Charlie, nel silenzio si trovava a proprio agio. Ma anche lei, come Charlie, sapeva essere una buona osservatrice.
«C'è qualcosa che non va?», mi chiese a voce bassa. «Mi sembri... in ansia».
Sorrisi impacciata. «È così evidente?».
«Non proprio».
Forse mentiva per farmi sentire meglio.
«Non sei costretta a parlarne, se non vuoi», mi rassicurò. «Ma se credi che ti sia d'aiuto, ti ascolto».
Stavo quasi per dirle "grazie, ma è meglio di no". Erano troppi i segreti che mi ero impegnata a mantenere. Non potevo discutere i miei problemi con un essere umano. Andava contro le regole.
Tuttavia, con una strana e improvvisa intensità, era proprio ciò che volevo. Volevo parlare con un'amica normale, umana. Volevo lamentarmi un po', come ogni altra ragazza. Volevo che i miei problemi fossero semplici. E poi mi avrebbe fatto bene che qualcuno al di fuori di tutto quel caos licantropo-vampiresco rimettesse le cose nella giusta prospettiva. Qualcuno di imparziale.
«Va bene, mi farò i fatti miei», promise Angela, sorridendo mentre guardava l'indirizzo sulla sua busta.
«No», dissi. «Hai ragione. Sono in ansia. È... per via di Edward».
«Che c'è che non va?».
Era così semplice parlare con Angela. Quando faceva una domanda come quella, sapevo che non era morbosa o in cerca di pettegolezzi come Jessica. Si preoccupava per me.
«Oh, è arrabbiato con me».
«Incredibile», disse. «Perché?».
Sospirai. «Ti ricordi Jacob Black?».
«Ah», disse.
«Ecco».
«È geloso».
«No, non geloso...». Avrei dovuto stare zitta. Non c'era modo di spiegare come stavano davvero le cose. Eppure volevo continuare a parlare. Non mi ero resa conto di essere così affamata di conversazione umana. «Edward crede che Jacob abbia... una cattiva influenza, credo. Che sia più o meno... pericoloso. Sai quanti problemi ho avuto nei mesi scorsi... è tutto ridicolo, comunque».
Rimasi sorpresa di fronte ad Angela che scuoteva la testa.
«Che c'è?».
«Bella, ho visto come ti guarda Jacob Black. Scommetto che il vero problema è la gelosia».
«Non c'è niente fra me e Jacob».
«Per te, forse. Ma per Jacob...».
«Jacob conosce i miei sentimenti. Gli ho detto tutto», risposi accigliata.
«Edward è un essere umano, Bella. Reagisce come tutti i ragazzi».
Feci una smorfia. A quell'affermazione non c'era risposta possibile.
Mi sfiorò la mano. «Gli passerà».
«Lo spero. Jake sta passando un brutto periodo. Ha bisogno di me».
«Tu e Jacob siete molto vicini, vero?».
«È quasi uno di famiglia», confermai.
«E a Edward lui non piace. Dev'essere dura. Chissà come reagirebbe Ben...», rimuginò.
Abbozzai un sorriso. «Forse come tutti i ragazzi».
Sorrise. «Forse».
Poi cambiò discorso. Angela non era un tipo insistente e sentiva che non volevo, o non potevo, aggiungere altro.
«Ieri mi hanno assegnato la stanza. Ovviamente è la più periferica del campus».
«Ben sa già dove alloggerà?».
«Nel dormitorio centrale. Tutte le fortune toccano a lui. E tu? Hai deciso dove andrai?».
Abbassai lo sguardo, concentrandomi sui goffi scarabocchi della mia grafia. Per un secondo fui distratta dal pensiero di Angela e Ben all'Università di Washington. Sarebbero partiti per Seattle nel giro di pochi mesi. Sarebbe stata sicura allora? La minaccia del giovane vampiro selvaggio si sarebbe spostata da qualche altra parte? Ci sarebbe stato un altro posto, qualche altra città a rabbrividire di fronte a titoli da film horror?
E quei nuovi titoli sarebbero stati colpa mia?
Provai a scrollarmi di dosso i pensieri e risposi alla sua domanda un po' in ritardo. «Alaska, credo. L'Università di Juneau».
Sentii la sorpresa nella sua voce. «Alaska? Oh, davvero? Voglio dire, è fantastico. Però immaginavo che scegliessi un posto... più caldo».
Sorrisi appena, senza staccare gli occhi dalla busta. «Sì. Forks ha proprio cambiato le mie prospettive di vita».
«Ed Edward?».
Il suo nome mi fece sentire le farfalle nello stomaco, ma riuscii ad alzare lo sguardo e sorridere. «Nemmeno per lui fa troppo freddo in Alaska».
Ricambiò il sorriso. «Ovviamente no». Poi sospirò. «È così lontano. Non potrai tornare a casa molto spesso. Sentirò la tua mancanza. Mi scriverai qualche e-mail?».
Un'onda di pacata tristezza mi si rovesciò addosso: forse era un errore entrare in confidenza con Angela, ormai. Ma non sarebbe stato peggio farsi scappare queste ultime occasioni? Rimossi i pensieri negativi per risponderle con una frecciata.
«Se dopo questo lavoro mi funzioneranno ancora le mani». Accennai alla pila di buste che avevo finito.
Ridemmo e poi fu più facile chiacchierare allegre di scuola e di adulti mentre finivamo il resto del lavoro. Dovevo soltanto sforzarmi di non pensare. E quel giorno c'erano cose più urgenti di cui preoccuparsi.
L'aiutai anche a mettere i francobolli. Mi dispiaceva andarmene.
«Come va la mano?», chiese.
Piegai le dita. «Tornerò a usarla... prima o poi».
La porta di sotto sbatté, e ci sporgemmo per guardare.
«Angie?», chiamò Ben.
Provai a sorridere, ma le labbra mi tremavano. «Credo sia ora di andare».
«No, non devi andare. Anche se temo sia pronto a descrivermi il film... nei dettagli».
«Charlie si starà chiedendo dove sono finita».
«Grazie per l'aiuto».
«Sono stata bene, veramente. Dovremmo fare di nuovo qualcosa del genere. È bello passare del tempo fra ragazze».
«Assolutamente sì».
Qualcuno bussò piano alla porta della stanza.
«Entra, Ben», disse Angela.
Mi alzai e mi stiracchiai.
«Ehi, Bella! Sei sopravvissuta», mi salutò Ben velocemente prima di prendere il mio posto accanto ad Angela. Diede un'occhiata alla nostra opera. «Bel lavoro. Peccato abbiate finito, vi avrei...». Fece dissolvere il pensiero, e poi ricominciò eccitato. «Angie, ti sei persa un gran film! Era stupendo. Una scena di lotta finale spettacolare, coreografie impressionanti! E il protagonista, be', lo devi vedere per capire...».
Angela mi lanciò un'occhiata esasperata.
«Ci vediamo a scuola», dissi con una risata nervosa.
Sospirò. «Ci vediamo».
Saltai inquieta sul pick-up, ma la strada era deserta. Durante il viaggio occhieggiavo ansiosa in tutti gli specchietti, ma non c'era traccia dell'auto argentata.
Non la trovai neanche davanti a casa, per quel poco che poteva significare.
«Bella?», chiamò Charlie quando aprii la porta.
«Ciao, papà».
Era in salotto, davanti alla TV.
«Com'è andata?».
«Bene», risposi. Tanto valeva dirgli tutto, presto l'avrebbe saputo da Billy. E poi, così lo avrei fatto felice. «Al lavoro non avevano bisogno di me, perciò sono andata a La Push».
Non c'era molta sorpresa sul suo viso. Billy gliel'aveva già detto.
«Come sta Jacob?», domandò fingendo indifferenza.
«Bene», dissi altrettanto indifferente.
«Sei andata dai Weber?».
«Sì. Abbiamo trascritto gli indirizzi su tutti gli inviti».
«Bene». Charlie fece un ampio sorriso. Era stranamente interessato, considerando che c'era una partita in corso. «Mi fa piacere che tu abbia trascorso un po' di tempo con i tuoi amici».
«Anche a me».
Mi diressi in cucina, in cerca di un po' di lavoro da fare. Purtroppo Charlie aveva già sparecchiato. Rimasi lì qualche minuto, in piedi davanti alla striscia di luce che il sole tracciava sul pavimento. Ma sapevo che non potevo rimandare quel momento per sempre.
«Vado a studiare», annunciai accigliata salendo le scale.
«A dopo», rispose Charlie.
Chiusi con attenzione la porta della stanza, prima di voltarmi a guardare.
Ovviamente lui era lì. Appoggiato alla parete di fronte a me, nell'ombra, accanto alla finestra aperta. La sua espressione era dura, la postura tesa. Mi fissava silenzioso.
Rabbrividii, aspettandomi un fiume di parole che non arrivò. Non smetteva di fissarmi, forse era troppo arrabbiato per parlare.
«Ciao», dissi finalmente.
Il suo viso sembrava scolpito nella roccia. Contai fino a cento dentro di me, ma non cambiò espressione.
«Ehm... guarda un po', sono ancora viva», abbozzai.
Un ruggito cupo risuonò nel suo petto, senza che cambiasse espressione.
«Non si è fatto male nessuno», insistetti scrollando le spalle.
Si mosse. A occhi chiusi, si chiuse le narici con le dita della mano destra.
«Bella», sussurrò. «Hai idea di quanto sono stato vicino a superare il confine oggi? A infrangere il patto per venirti a cercare? Sai che conseguenze ci sarebbero state?».
Boccheggiai e lui aprì gli occhi: freddi e duri come la notte.
«Non puoi!», dissi a voce troppo alta. Cercai di abbassarla per non insospettire Charlie, ma avrei voluto gridare. «Edward, per loro ogni scusa è buona per uno scontro. Non vedono l'ora. Non devi mai violare le regole!».
«Forse non sono gli unici a desiderare uno scontro».
«Non cominciare», sbottai, «voi avete stretto il patto, voi lo rispettate».
«Se ti avesse fatto del male...».
«Basta!», lo interruppi. «Non c'è niente di cui preoccuparsi. Jacob non è pericoloso».
«Bella». Alzò gli occhi al cielo. «Tu non sei esattamente il miglior giudice per dire che cosa è pericoloso e che cosa non lo è».
«Di Jake non devo preoccuparmi. E neanche tu».
Serrò i denti. Aveva le mani chiuse a pugno sui fianchi e restava in piedi contro il muro. Era odioso che mantenesse le distanze.
Respirai a fondo e attraversai la stanza. Non si mosse quando lo abbracciai. Rispetto al caldo del tardo sole pomeridiano che entrava dalla finestra, la sua pelle era di ghiaccio. Anche lui sembrava di ghiaccio, gelido com'era.
«Mi dispiace averti messo in ansia», farfugliai.
Con un sospiro si rilassò. Mi strinse i fianchi.
«In ansia è un eufemismo», mormorò. «È stata una giornata molto lunga».
«Non dovevi venirlo a sapere. Pensavo che sareste tornati più tardi dalla caccia».
Fissai il suo viso, il suo sguardo sulla difensiva; nella frenesia del momento non l'avevo notato, ma gli occhi erano troppo scuri. Le occhiaie erano profonde e purpuree. Aggrottai le sopracciglia in segno di disapprovazione.
«Quando Alice ti ha visto sparire, sono tornato indietro».
«Non avresti dovuto. Ora dovrai andare via di nuovo». Intensificai lo sguardo.
«Posso aspettare».
«È ridicolo. Voglio dire, so che lei non poteva vedermi con Jacob, ma tu avresti dovuto sapere...».
«Ma non sapevo. E non puoi pretendere che io ti permetta...».
«Oh, sì che posso», lo interruppi. «È proprio ciò che pretendo...».
«Non succederà più».
«Esatto! Perché la prossima volta non reagirai così».
«Perché non ci sarà una prossima volta».
«Quando sei tu a dovertene andare me ne faccio una ragione, anche se non mi fa piacere...».
«Non è la stessa cosa. Io non rischio la vita».
«Neanche io».
«I licantropi rappresentano un rischio».
«Non sono d'accordo».
«Non tollero discussioni su questo, Bella».
«Infatti».
Stringeva di nuovo i pugni. Li sentivo contro la schiena.
Le parole uscirono da sole, senza pensare. «Si tratta davvero della mia sicurezza?».
«Che vuoi dire?».
«Non sei...». La teoria di Angela mi sembrava più stupida che mai. Fu difficile terminare il pensiero. «Sai che non devi essere geloso, vero?».
«Lo so?».
«Sii serio».
«Ma certo. Non vedo ombra di ironia in tutto questo».
Aggrottai la fronte, sospettosa. «O invece... c'è qualcos'altro? Qualche assurdità tipo vampiri-e-licantropi-nemici-per-sempre? Una lotta a chi ha più testosterone...».
I suoi occhi s'infiammarono. «Riguarda soltanto te. L'unica cosa che voglio è che tu sia al sicuro».
Il fuoco nero nei suoi occhi non lasciava spazio ai dubbi. «Okay», sospirai. «Ci credo. Ma devo dirti una cosa. Per
quanto riguarda questa assurdità dei nemici, io non voglio saperne. Sono territorio neutrale. Sono la Svizzera. Mi rifiuto di lasciarmi coinvolgere in dispute territoriali fra creature mitiche. Jacob è uno di famiglia. Tu sei... be', non esattamente l'amore della mia vita, perché mi aspetto di amarti molto più a lungo. Sei l'amore della mia esistenza. E non m'interessa se uno è un licantropo e l'altro un vampiro. Se mai scopriremo che Angela è una strega, si unirà alla festa anche lei».
Mi fissò in silenzio, lo sguardo torvo.
«Svizzera», ribadii per dare più enfasi.
Scuro in volto, fece un sospiro. «Bella...», attaccò, poi fece una pausa e arricciò il naso, disgustato.
«Che c'è ora?».
«Be'... non ti offendere, ma puzzi di cane», mi disse.
Poi sorrise impertinente e capii che la schermaglia era finita. Per il momento.

La battuta di caccia sfumata fu rimandata al venerdì sera quando Edward, Jasper, Emmett e Carlisle si sarebbero diretti verso una riserva in California del Nord che aveva problemi con i puma.
Sulla questione dei licantropi non avevamo raggiunto nessun accordo, ma non mi sentii in colpa a chiamare Jake - nel breve tempo che ebbi prima che Edward rientrasse dalla finestra dopo aver riportato la Volvo a casa - per fargli sapere che sarei andata di nuovo a trovarlo il sabato seguente. Non c'era niente di furtivo. Edward sapeva ciò che sentivo. E se avesse smontato di nuovo il pick-up, avrei chiamato Jacob e mi sarei fatta venire a prendere. Forks era neutrale, come la Svizzera. Come me.
Perciò, quando il giovedì uscii dal lavoro e ad aspettarmi nella Volvo trovai Alice anziché Edward, non m'insospettii subito. La portiera del passeggero era aperta e una musica che non conoscevo faceva tremare tutto al suono dei bassi.
«Ciao, Alice», entrai gridando sopra quella lagna. «Dov'è tuo fratello?».
Cantava sulla canzone, un'ottava sopra la melodia, e aggiungeva variazioni di armonia complicate e sinuose. Mi fece un cenno, ignorando la mia domanda e concentrandosi sulla musica.
Chiusi la portiera e mi coprii le orecchie con le mani. Lei sorrise e abbassò il volume fino a lasciare la musica in sottofondo. Poi, in un istante, chiuse le sicure e diede gas.
«Che succede?», domandai. Iniziavo a sentirmi a disagio. «Dov'è Edward?».
Alzò le spalle. «Sono partiti presto».
«Ah». Provai a controllare la mia assurda delusione. Se era partito prima, significava che sarebbe tornato prima.
«Tutti i ragazzi sono partiti, possiamo fare un pigiama party!».
«Un pigiama party?», ripetei ormai in preda al sospetto.
«Che te ne pare?», domandò entusiasta.
Per un lungo secondo incrociai il suo sguardo agitato.
«È un rapimento, vero?».
Rise e annuì. «Fino a sabato. Esme ha chiarito tutto con Charlie; stai con me per due notti, e domani a scuola ti accompagno e ti vengo a prendere io».
Mi voltai verso il finestrino, infastidita.
«Mi dispiace», disse Alice senza il minimo cenno di pentimento. «Mi ha comprata».
«Come?», sibilai fra i denti.
«Con la Porsche. È uguale a quella che ho rubato in Italia». Sospirò felice. «Non è il caso che la guidi per le strade di Forks, ma, se vuoi, possiamo vedere quanto ci mettiamo per arrivare a Los Angeles. Scommetto che entro mezzanotte saremo di ritorno».
«No grazie, passo», sospirai reprimendo un fremito.
Percorremmo il vialone a velocità sempre troppo alta: Alice parcheggiò in garage e diedi un'occhiata fugace alle auto. C'erano la jeep di Emmett, la decappottabile rossa di Rosalie e in mezzo una scintillante Porsche giallo canarino.
Alice scese dalla macchina con grazia e accarezzò il fianco del suo regalo. «Carina, vero?».
«Davvero spettacolare», grugnii, incredula. «Ti ha fatto questo regalo soltanto per tenermi in ostaggio due giorni?».
Alice rispose con un'espressione eloquente.
Un secondo dopo compresi ed esclamai inorridita: «È per ogni volta che lui andrà via, vero?».
Annuì.
Sbattei la portiera e camminai decisa verso casa. Lei mi danzava accanto, impenitente.
«Alice, non ti pare che stia esagerando con il controllo? Che sia un comportamento un po' psicotico?».
«In realtà no». Inspirò. «A quanto pare non capisci quanto può essere pericoloso un giovane licantropo. Specialmente se non riesco a vederlo. Edward non può sapere se sei al sicuro. Non è il caso di essere temerari».
La mia voce si inacidì. «Certo, perché invece un pigiama party fra vampiri è il massimo del comportamento sicuro e responsabile».
Alice rise. «Prometto che ti farò la pedicure, trattamento completo».
Tutto sommato non era una brutta prospettiva, a parte il fatto che ero stata trattenuta contro la mia volontà. Esme aveva portato cibo italiano - roba di qualità, direttamente da Port Angeles - e Alice aveva recuperato tutti i miei film preferiti. C'era anche Rosalie, tranquilla, nelle retrovie. Alice insistette per farmi la pedicure. Forse aveva compilato una specie di lista di cose da fare... influenzata da qualche brutto telefilm.
«Fino a che ora vuoi rimanere alzata?», mi chiese ammirando la scintillante tonalità rosso sangue delle mie unghie. Il mio umore non aveva scalfito il suo entusiasmo.
«Non voglio fare tardi. Domani c'è lezione».
S'imbronciò.
«Tra l'altro, io dove dormo?». Misurai il divano con gli occhi. Era un po' piccolo. «Non potevi tenermi sotto sorveglianza a casa mia?».
«E che razza di pigiama party sarebbe?». Alice scosse la testa esasperata. «Tu dormi in camera di Edward».
Sospirai. In effetti il suo divano di pelle nera era più lungo di quello di Alice. E la moquette dorata della sua camera era così spessa che avrei anche potuto dormire per terra.
«Almeno posso tornare a casa a prendere le mie cose?».
Sorrise. «Già prese».
«Posso usare il tuo telefono?».
«Charlie sa dove sei».
«Non devo chiamare Charlie», risposi imbronciata. «Temo di dover annullare certi piani».
«Oh». Ci pensò su. «Non saprei».
«Alice...», piagnucolai. «Dai!».
«Okay, okay», disse e svanì dalla stanza. Tornò mezzo secondo dopo con il cellulare in mano. «Su questo dettaglio non ha imposto divieti...», borbottò mentre me lo passava.
Feci il numero di Jacob, nella speranza che non fosse in giro con gli amici proprio quella sera. La fortuna era dalla mia parte: rispose lui.
«Pronto?».
«Ciao, Jake, sono io». Alice mi guardò inespressiva per un secondo, poi tornò a sedersi sul divano fra Rosalie ed Esme.
«Ciao, Bella», disse Jacob improvvisamente cauto. «Che succede?».
«Niente di bello. Non posso più venire sabato».
Restò in silenzio per un minuto. «Stupido succhiasangue», mugugnò infine. «Pensavo che sarebbe partito. Quando non c'è hai il divieto di vivere? O ti tiene chiusa dentro una bara?».
Scoppiai a ridere.
«Non mi sembra così divertente».
«Rido solo perché ci sei andato vicino», gli dissi. «Ma sabato sarà di ritorno, perciò non importa».
«È rimasto a mangiare qui a Forks, eh?», chiese Jacob sarcastico.
«No». Mi sforzai di non irritarmi. In fondo ero arrabbiata quasi quanto lui. «Ha anticipato la partenza».
«Ah. Be', dai, vieni adesso allora», disse con improvviso entusiasmo. «Non è tanto tardi. Oppure vengo io da Charlie».
«Magari. Non sono da Charlie», dissi con voce amara. «Mi hanno fatta prigioniera, più o meno».
Rimase in silenzio a rimuginare, poi ruggì. «Veniamo subito a prenderti», promise impassibile, passando automaticamente al plurale.
Un brivido mi corse lungo la schiena, ma risposi in tono leggero e provocatorio. «Prospettiva attraente. Sono stata anche torturata: Alice mi ha dipinto le unghie».
«Dico sul serio».
«Non è il caso. Stanno soltanto cercando di tenermi al sicuro».
Ruggì di nuovo.
«So che è stupido, ma lo fanno con il cuore».
«Ma quale cuore!».
«Scusami per sabato. Ora vado a buttarmi a letto» - divano, corressi mentalmente - «ma ti chiamo presto».
«Sei sicura che te lo permetteranno?», chiese sarcastico.
«Non del tutto». Sospirai. «'Notte, Jake».
«A presto».
Alice all'improvviso mi fu accanto, con la mano tesa verso il telefono, ma io stavo già facendo il numero. Lei lo vide.
«Non credo che abbia con sé il cellulare», disse.
«Lascerò un messaggio».
Il telefono squillò quattro volte, seguito da un bip. Non c'erano messaggi preregistrati.
«Sei nei guai», scandii enfatizzando ogni parola. «Guai grossi. I grizzly ti sembreranno animali domestici, in confronto a ciò che ti aspetta a casa».
Chiusi il telefono con uno schiocco e lo riposi nella mano ansiosa di Alice. «Fatto».
Lei sorrise. «Questa storia del rapimento è proprio divertente».
«Ora vado a dormire», annunciai puntando verso le scale. Alice mi seguì.
«Alice», sospirai. «Non ho nessuna intenzione di scappare. Se ci stessi pensando, tu lo sapresti e mi prenderesti subito».
«Voglio solo mostrarti dove sono le tue cose», disse con aria innocente.
La camera di Edward era nell'ala più lontana del corridoio del terzo piano; non mi ero mai confusa, nemmeno quando l'enorme casa non mi era così familiare. Ma quando accesi la luce, restai perplessa. Avevo sbagliato porta?
Alice ridacchiò.
Capii subito che la stanza era la stessa, ma la disposizione dei mobili era cambiata. Avevano spostato il divano contro la parete a nord e lo stereo a ridosso dei tanti ripiani di CD, per fare spazio a un letto gigante che dominava al centro della stanza.
La parete di vetro a sud rifletteva la scena come uno specchio e la rendeva doppiamente inquietante.
Era tutto in coordinato: il copriletto era dorato, di una tonalità appena più chiara rispetto alle pareti, e la struttura del letto era intricata, in ferro battuto nero. Il baldacchino, decorato con volute di rose metalliche, assomigliava a un pergolato. Il mio pigiama era ripiegato con cura ai piedi del letto, accanto al beauty case.
«Che diavolo è questa storia?», borbottai.
«Pensavi che ti avrebbe lasciata dormire sul divano?».
Entrai per togliere le mie cose dal letto, bofonchiando parole incomprensibili.
«Ti lascio un po' di privacy», rise Alice. «Ci vediamo domani mattina».
Mi lavai i denti e mi cambiai, poi afferrai un morbido cuscino di piume dal letto enorme e trascinai il copriletto dorato sul divano. Sapevo che mi stavo comportando da stupida, ma non me ne importava niente. Porsche in regalo e letti enormi in case dove nessuno dormiva... era peggio che irritante. Spensi la luce e mi raggomitolai sul divano; forse ero troppo seccata per dormire.
Nel buio, la grande vetrata non era più lo specchio scuro che raddoppiava la stanza. La luna brillante illuminava le nuvole al di fuori. Quando mi abituai al buio scorsi il bagliore diffuso che, riflesso sulle cime degli alberi, apparteneva a un lembo di fiume. Guardai la luce argentata, in attesa che i miei occhi si facessero pesanti.
Qualcuno bussò piano alla porta.
«Che c'è, Alice?», sibilai. Ero sulla difensiva, immaginavo la sua aria divertita alla vista del letto improvvisato.
«Sono io», disse dolce Rosalie e socchiuse la porta quel tanto che bastava perché il bagliore argentato sfiorasse il viso perfetto. «Posso entrare?».
 
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