Capitolo 28

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petite88
view post Posted on 22/1/2008, 21:20





28



La capra giaceva su un fianco, con le vertebre che biancheggiavano alla luce della luna. Dalla gola squarciata, il sangue continuava a colare al suolo, gli occhi erano stralunati e vitrei, la lingua pendeva floscia dalla bocca.
Più lo zombie è vecchio, più grande dev'essere il sacrificio. Lo so bene, perciò evito, per quanto possibile, gli zombie più vecchi. Dopo cento anni, il cadavere è pressoché polverizzato: se si è fortunati, restano frammenti di ossa. Tuttavia i corpi si riformano al momento della resurrezione, ammesso che l'operatore abbia un potere sufficiente.
Il problema è che la maggior parte dei risveglianti non è in grado di rianimare i cadaveri «antichi», cioè quelli che hanno un secolo o più. Io invece posso, tuttavia non voglio. Bert e io abbiamo discusso a lungo sulle mie preferenze. Più è antico lo zombie, maggiore è il compenso che possiamo chiedere: il lavoro che mi accingevo a compiere, quella notte, valeva almeno ventimila dollari. Dubitavo, però, che sarei stata pagata, a meno di considerare come compenso la possibilità di sopravvivere fino al mattino seguente. E, date le circostanze, lo si poteva giudicare un onorario adeguato.
Dopo essersi tolto la camicia strappata, Zachary mi si accostò, pallido e magro, il viso tutto ombre e carne bianca, gli zigomi alti, le guance quasi cavernose. «Che cosa facciamo?» domandò.
La capra morta giaceva all'interno del cerchio che lui stesso aveva tracciato in precedenza col sangue: un inizio corretto. «Porta nel cerchio tutto quello che serve.»
Il risvegliante prese un lungo coltello da caccia e un recipiente da mezzo litro pieno di un unguento chiaro e vagamente luminoso. Io preferivo il machete, però la lama del coltello era larga, con la costa seghettata, la punta acuminata, il taglio pulito e affilato. Zachary aveva molta cura dei suoi strumenti.
«Dato che non possiamo ammazzare la capra un'altra volta, di che cosa ci serviremo?»
«Di noi stessi.»
«Di che stai parlando?»
«Ci feriremo per far scorrere il nostro sangue, vivo e fresco: tutto quello che saremo disposti a sacrificare.»
«L'emorragia c'indebolirà troppo per continuare...»
Scossi la testa. «Abbiamo già il cerchio di sangue, Zachary. Non dobbiamo tracciarlo di nuovo: dobbiamo soltanto ripercorrerlo.»
«Non capisco...»
«Non ho tempo per spiegarti la teoria. Ogni ferita è una piccola morte.
Riattiveremo il cerchio rafforzandolo con una piccola morte.»
Lui scosse la testa. «Continuo a non capire...»
Era inutile, proprio come mettersi a spiegare la respirazione: si può descrivere il processo, non la sensazione di respirare. «Ti mostrerò ciò che intendo.» A ogni buon conto, se Zachary non avesse partecipato istintivamente a quella fase del rituale, comprendendola senza spiegazioni, l'operazione sarebbe fallita.
Quando protesi la mano, Zachary esitò, poi mi porse il coltello dalla parte dell'impugnatura. Non era bilanciato, però non era neppure un'arma da lancio. Inspirai profondamente, quindi posai il filo della lama sul mio braccio sinistro, poco sotto l'ustione a forma di croce. Un taglio deciso, rapido, doloroso. Il sangue sgorgò, cupo e gocciolante. Espirai, prima di restituire il coltello a Zachary.
Il suo sguardo si abbassò dal mio viso al coltello.
«Fallo anche tu, sul braccio destro, in modo che le ferite siano speculari.»
Dopo avere eseguito, Zachary annuì, espirando in un sibilo, quasi un ansito.
«Adesso inginocchiati insieme con me.»
Di fronte a me, per mantenere quella specularità che avevo chiesto, Zachary s'inginocchiò, dimostrando di saper obbedire alle istruzioni. Bene.
Piegai il braccio destro e lo sollevai, col gomito all'altezza della spalla e con le dita all'altezza della testa, imitata da Zachary. «Adesso dobbiamo afferrarci le mani e premere le ferite l'una contro l'altra.»
Immobile, Zachary esitò.
«Che succede?»
Senza rispondere, Zachary scosse la testa, rapidamente, quindi mi afferrò la mano. Anche se il suo braccio era più lungo del mio, riuscimmo a fare quello che era necessario.
La sua pelle mi sembrava sgradevolmente fredda. Lo scrutai in viso, senza riuscire a capire che cosa stesse pensando. Trassi un profondo respiro purificatore e cominciai. «Offriamo il nostro sangue alla terra. Vita per morte, morte per vita. Che i defunti resuscitino per bere il nostro sangue!
Che al nutrimento che offriamo corrisponda la loro obbedienza!»
Allora, sgranando gli occhi, Zachary capì. Un ostacolo era superato. Mi alzai e lo guidai a percorrere il cerchio di sangue. Nel sentire come una corrente elettrica lungo la spina dorsale, guardai Zachary dritto negli occhi, che apparivano quasi argentei nella luce della luna. Chiudemmo il cerchio, ritornammo al punto di partenza, presso la capra sacrificata, e sedemmo sull'erba intrisa di sangue.
Dopo avere immerso la mano destra nel sangue che ancora colava dalla gola squarciata della capra, fui costretta ad alzarmi in ginocchio per tracciare sulla faccia di Zachary alcune striature dalla fronte alle guance: la sua pelle era liscia, appena ispida di barba che cominciava a ricrescere. Sul suo cuore impressi l'impronta della mia mano.
L'amuleto sembrava una fascia di tenebra intorno al suo braccio. Sentii che aveva bisogno di sangue, anche se non di capra, e lo bagnai, passando i polpastrelli sulle perline e sulle piume intrecciate alle corde. Con una scrollata di spalle, pensai che mi sarei occupata in seguito della magia privata del mio collega.
Servendosi soltanto dei polpastrelli, con mano tremante, come se avesse timore di toccarmi, Zachary tracciò i segni sul mio viso e sul mio petto. Il sangue era umido e freddo: sangue del cuore, sul cuore. Poi aprì il recipiente che conteneva l'unguento preparato appositamente: era biancastro, cosparso di luccicanti pagliuzze verdastre di muffa di cimitero.
Spalmai l'unguento sulle tracce rosse di Zachary, in modo che la pelle lo assorbisse. Lui fece altrettanto con me. Era una sostanza densa, dalla consistenza simile a quella della cera, ed emanava diverse fragranze: rosmarino per la memoria, cannella e garofano per la conservazione, salvia per la saggezza, e un'altra pianta, forse il timo, per legare il composto. La cannella era in eccesso: d'improvviso, la notte profumò di torta di mele.
Insieme, andammo a spalmare unguento e sangue sulla lapide. Seguii coi polpastrelli il nome scolpito, ormai quasi cancellato: Estelle Hewitt, nata in un anno illeggibile del XIX secolo e morta nel 1866. Le altre parole, sotto la data e il nome, erano ormai indecifrabili. Mi chiesi chi fosse la defunta.
Era la prima volta che resuscitavo una persona di cui non sapevo nulla.
Non sempre era bene procedere in quel modo, ma, d'altra parte, in tutta quell'operazione, di buono c'era assai poco.
Mentre Zachary si recava all'estremità opposta della tomba, io rimasi accanto alla lapide, però mi sentivo unita a lui da una fune invisibile. Senza bisogno di domande, iniziammo insieme a recitare: «Ascoltaci, Estelle Hewitt... Ti evochiamo dalla tomba. Col sangue, con la magia e con l'acciaio, ti evochiamo! Resuscita, Estelle! Vieni a noi, vieni a noi!»
La fune invisibile che ci univa si tese nel momento in cui i nostri sguardi s'incontrarono: Zachary era un potente risvegliante. Perché non era riuscito da solo a compiere l'evocazione?
«Estelle! Estelle! Vieni a noi! Destati, Estelle! Resuscita e vieni a noi!»
A voce sempre più alta, invocammo ripetutamente il nome della defunta.
La terra fu scossa da un tremito. La capra scivolò, mentre il suolo eruttava e una mano si protendeva come a ghermire l'aria. Poi un'altra mano afferrò il nulla, e la terra cominciò a cadere dal cadavere che emergeva dalla tomba.
Allora, soltanto allora, compresi perché Zachary non era riuscito da solo nell'impresa. Finalmente ricordai dove lo avevo già visto: al suo funerale. I risveglianti erano così pochi, che se uno moriva, i colleghi partecipavano alle esequie: pura e semplice cortesia professionale. Così ricordai di avere intravisto quel viso angoloso nella bara e di avere pensato, allora, che il becchino lo aveva ricomposto con scarsa perizia.
Intanto, la zombie uscì quasi completamente dalla tomba e io rimasi seduta, ansimante, con le gambe semisepolte, incapace di staccare gli occhi da Zachary. Lui, a sua volta, mi fissava. Era morto, però non era uno zombie: non era nulla di ciò che conoscevo direttamente o indirettamente. Avrei però scommesso che era umano... anzi forse lo avevo appena fatto.
L'amuleto al braccio... Il sangue di capra non l'ha soddisfatto... Che cosa deve fare, Zachary, per restare «vivo»? Avevo sentito parlare di gris-gris che riuscivano a ingannare la morte, però erano soltanto voci, leggende, fantasie... O forse no.
Un tempo, forse, Estelle Hewitt era stata bella. Ma un secolo trascorso sottoterra non migliora l'aspetto di nessuno. Alcuni ciuffi dei capelli neri, raccolti in una crocchia, ricadevano sul viso quasi scheletrico, biancogrigiastro, orribilmente cereo, del tutto privo di espressione, falso come una maschera.
Se non altro, gli occhi stralunati, dalle iridi nere e piccole, quasi perse nel bianco, non avevano la caratteristica che detestavo, cioè non erano avvizziti come chicchi d'uva. Guanti bianchi sporchi di terra sepolcrale nascondevano le mani. Il vestito era bianco, adorno di pizzi: di certo era un abito nuziale.
Seduta accanto alla tomba, Estelle cercò di organizzare i pensieri. Sapevo che le sarebbe occorso un certo tempo, dato che persino i morti recenti impiegavano qualche minuto a orientarsi. E un secolo era un periodo maledettamente lungo da trascorrere nell'aldilà.
Badando a restare all'interno del cerchio, girai intorno alla tomba, osservata da Zachary, da colui che non era riuscito a resuscitare il cadavere perché era lui stesso un cadavere. Poteva ancora farcela coi morti recenti, ma non con quelli antichi. Un redivivo che resuscitava i morti dalla tomba...
Davvero c'era qualcosa di sbagliato in tutto ciò.
Continuai a osservare Zachary, che impugnava il coltello. Ormai conoscevo il suo segreto. Era possibile che lo conoscesse anche Nikolaos e magari qualcun altro? Di sicuro ne era a conoscenza la persona che aveva creato il gris-gris, chiunque fosse. Ma chi altri? Premetti le dita sulla ferita al braccio, poi le protesi, insanguinate, verso il gris-gris.
Sgranando gli occhi, ansimante, Zachary mi afferrò il polso. «Non tu.»
«Chi allora?»
«Qualcuno di cui non si sentirà la mancanza.»
Con un fruscio di gonne, la zombie iniziò a strisciare verso di noi.
«Avrei dovuto lasciare che ti uccidessero», dissi.
Zachary sorrise. «Chi può uccidere i morti?»
Con uno strattone, liberai il polso. «Io lo faccio in continuazione.»
Quando la zombie mi afferrò le gambe, mi sembrò di essere punta da un nugolo di spilloni. «Nutrila tu, figlio di puttana.»
Non appena Zachary le offrì il polso, la zombie lo afferrò con goffa bramosia, lo annusò, infine lo lasciò indenne. «Non credo di poterla nutrire, Anita.»
Naturalmente no: per completare il rituale era necessario sangue fresco e vivo, e Zachary non poteva più offrirne, dato che era morto. Io, invece, potevo.
«Che tu sia maledetto, Zachary! Che tu sia maledetto!»
In silenzio, il risvegliante si limitò a fissarmi.
Intanto, la zombie cominciò a emettere gemiti gutturali. Nel momento in cui le offrii il mio braccio sinistro sanguinante, le sue dita aguzze si conficcarono nella mia pelle, poi la sua bocca aderì alla ferita e iniziò a succhiare.
Avevo stipulato un accordo e scelto il rituale, quindi resistetti all'impulso di sottrarmi: non avevo scelta. Scrutai Zachary, mentre quella «cosa» si nutriva del mio sangue.
«Quante persone hai ucciso per restare in vita?» chiesi.
«Non credo che tu voglia saperlo...»
«Quante?»
«Abbastanza.»
Di scatto sollevai il braccio, quasi tirando in piedi la zombie, che emise un suono soffocato, simile al miagolio di un gattino, e mi lasciò così bruscamente da ricadere all'indietro, col sangue che le imbrattava i denti e le colava sul mento ossuto. Non riuscivo a guardarla.
«Il cerchio è aperto», annunciò Zachary. «La zombie è vostra.»
Rimasi perplessa per alcuni istanti, prima di rammentare i vampiri, i quali, radunati nell'oscurità, erano rimasti così silenziosi e immobili da farmi dimenticare la loro presenza. Ero l'unico essere vivente in tutto quel dannato cimitero! Dovevo andarmene...
Raccolte le scarpe, uscii dal cerchio. Gli altri vampiri mi lasciarono passare, ma Theresa mi si parò davanti. «Perché le hai permesso di succhiarti il sangue? Gli zombie non lo fanno.»
Scossi la testa. Perché mai credevo che me la sarei sbrigata più rapidamente con una spiegazione che con un atteggiamento ostile? «Il rituale era già compromesso. Non potevamo ricominciare senza un altro sacrificio, così ho offerto me stessa.»
La vampira mi scrutò. «Te stessa?»
«Non ho potuto fare di meglio, Theresa. Adesso lasciami passare...» Ero stanca e nauseata: dovevo andarmene subito. Forse Theresa lo capì dal tono della mia voce o forse era troppo bramosa di dedicarsi alla zombie per occuparsi di me. Non so perché, comunque si fece da parte, anzi scomparve, come spazzata via dal vento. Che si divertano pure... Io torno a casa, pensai.
Alle mie spalle, si udì un grido breve, strozzato, come prodotto da un apparato vocale non più adatto a parlare. Continuai a camminare, mentre la zombie strillava perché conservava ancora abbastanza ricordi umani da avere paura. Udii una risata profonda, una vaga eco di quella di Jean-Claude.
Dove sei, Jean-Claude?
Nel momento in cui decisi di lanciare un'occhiata indietro, i vampiri stavano stringendo il cerchio intorno alla zombie, che si spostava qua e là, incespicando, nel tentativo di scappare, ma invano.
Varcai il cancelletto sbilenco, scoprendo che finalmente il vento era sceso fra gli alberi. Dal cimitero oltre la siepe giunse un altro strillo. Allora corsi via, senza più guardare indietro.
 
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