Capitolo 31

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petite88
view post Posted on 22/1/2008, 21:57





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Erano quasi le tre del mattino quando salii le scale che conducevano al mio appartamento. Tutti i lividi mi dolevano. A causa dei tacchi alti, i piedi, le ginocchia e le reni erano tormentate da una sofferenza abrasiva, quasi rovente. Bramavo una lunga doccia calda e il letto. Se fossi stata fortunata, sarei riuscita a dormire ininterrottamente per otto ore, ma naturalmente non ci avrei scommesso.
Con una mano presi le chiavi, con l'altra impugnai la pistola, tenendola però nascosta lungo il fianco, nell'eventualità che un vicino aprisse inaspettatamente la porta. Per la prima volta da troppo tempo trovai la porta esattamente come l'avevo lasciata: chiusa a chiave. Grazie, Signore! A quell'ora del mattino non ero dell'umore adatto per giocare a guardie e ladri.
Appena varcata la soglia, scalciai per liberarmi delle scarpe, poi raggiunsi barcollando la camera da letto e scoprii che la spia luminosa della segreteria telefonica lampeggiava.
Posata la pistola sul letto, premetti il pulsante di avvio e iniziai a spogliarmi.
«Ciao, Anita. Sono Ronnie. Ho appuntaménto con una persona della HAV, domani alle undici, nel mio ufficio. Se non puoi, lasciami un messaggio in segreteria: ti richiamo. Sii prudente.»
Clic... Vrrr... La voce di Edward: «L'orologio ticchetta, Anita». Clic.
«Ti divertono, i giochetti, eh, figlio di puttana?» Cominciavo ad arrabbiarmi, e non sapevo che fare con Edward, né con Nikolaos, né con Zachary, né con Valentine, né con Aubrey. Però sapevo di aver bisogno di una doccia: era un punto di partenza. Forse, nel raschiarmi dalla pelle il sangue di capra essiccato, avrei avuto un'idea geniale.
Chiusi a chiave la porta del bagno e posai la pistola sul coperchio del gabinetto. Stavo cominciando a diventare un po' paranoica, anche se forse «realista» sarebbe un aggettivo più adatto.
Quando l'acqua che scorreva divenne tanto calda da produrre vapore, entrai nella doccia. In ventiquattro ore d'indagine non avevo scoperto nulla che potesse aiutarmi a scoprire il killer dei vampiri. D'altronde, la soluzione del caso non avrebbe eliminato gli altri problemi che dovevo affrontare.
Aubrey e Valentine avrebbero cercato di uccidermi non appena Nikolaos avesse cessato di proteggermi. E non ero sicura che la stessa Nikolaos non avesse intenzioni simili. Quanto a Zachary, ormai era chiaro che ammazzava gente per nutrire il suo amuleto vudù. Avevo sentito dire che certi amuleti esigevano sacrifici umani, anche se si trattava di oggetti che assicuravano vantaggi ben diversi dall'immortalità: ricchezza, potere, sesso... I sacrifici esigevano il sangue di determinate vittime: bambini, fanciulli, vergini, o magari vecchiette con gli occhi azzurri e una gamba di legno.
D'accordo, i parametri non erano forse così precisi, comunque dovevano essere rispettati. Bisognava dunque cercare una serie di persone scomparse caratterizzate da tratti comuni. Se Zachary si era limitato ad abbandonare le salme delle sue vittime, i giornali ne avevano scritto... forse.
In ogni caso, Zachary doveva essere fermato, e lo sarebbe stato già quella notte, se io non mi fossi immischiata. Nessuna buona azione resta impunita, insomma.
Con le mani aperte appoggiate alle mattonelle, lasciai che l'acqua mi scorresse lungo la schiena in rivoli quasi bollenti.
Okay, dovevo eliminare Valentine prima che lui ammazzasse me. Disponevo già di un mandato che non era mai stato revocato. Prima, però, ovviamente, dovevo trovarlo.
Sebbene pericoloso, Aubrey, almeno, sarebbe rimasto fuori gioco almeno finché Nikolaos lo avesse lasciato imprigionato nella sua bara.
Per tornare a Zachary, avrei potuto denunciarlo alla polizia, sicura che Dolph mi avrebbe ascoltata. Purtroppo, non ero in grado di fornire neppure uno straccio di prova. La sua magia era sconosciuta persino a me. E se io stessa non capivo che cos'era Zachary, come avrei potuto spiegarlo alla polizia?
Se avessi risolto il caso del killer di vampiri, Nikolaos mi avrebbe lasciata vivere, oppure no? Lo ignoravo.
Di sicuro, la sera successiva Edward sarebbe tornato a farmi visita. Se non gli avessi consegnato Nikolaos, avrebbe tentato di ottenere l'informazione che desiderava ricorrendo a qualche metodo che, conoscendolo, sarebbe stato molto doloroso per me. Forse potevo semplicemente dirgli ciò che voleva sapere, cioè consegnargli la Master. Tuttavia, se lui non fosse riuscito a ucciderla, avrei ricevuto in seguito un'altra visita: quella di Nikolaos.
E quella era proprio l'eventualità che desideravo scongiurare più di qualsiasi altra.
Nell'asciugarmi e nello spazzolarmi i capelli, cominciai a sentire fame.
Cercai di convincere me stessa che ero troppo stanca per mangiare, ma il mio stomaco non mi credette.
Erano le quattro quando finalmente mi coricai, col fedele crocifisso intorno al collo, la pistola nella fondina assicurata alla testiera del letto, e, a mo' di assicurazione contro il panico, un pugnale sotto il materasso: in caso di necessità non avrei mai avuto il tempo di afferrarlo, tuttavia non si sa mai.
Di nuovo sognai Jean-Claude, seduto a tavola a mangiare more.
«I vampiri non si nutrono di cibo solido», osservai.
«Già», sorrise Jean-Claude, spingendo verso di me la coppetta con la frutta.
«Detesto le more.»
«Sono sempre state le mie preferite.» Jean-Claude aveva un'espressione malinconica e bramosa. «Erano secoli che non le assaporavo.»
Presi la coppetta: era quasi gelida, e le more galleggiavano nel sangue.
Quando la lasciai, cadde lentamente, spandendo sul tavolo più sangue di quanto poteva contenerne.
Mentre il sangue gocciolava sul pavimento, Jean-Claude mi scrutò. «Nikolaos ci ucciderà entrambi.» Le sue parole giunsero come un vento caldo.
«Dobbiamo attaccare per primi, ma petite.»
«Cos'è 'sta stronzata del 'noi'?»
Il vampiro immerse le mani pallide nel sangue che colava, poi me le offri, come una coppa. «Bevi», mi esortò, col sangue che filtrava tra le dita.
«Ti renderà forte.»
Mi svegliai, spalancando gli occhi nell'oscurità. «Dannazione, Jean-Claude!» sussurrai. «Che cosa mi hai fatto?»
Dalla stanza vuota e buia non giunse risposta. Ringraziai il cielo per quel piccolo favore.
L'orologio segnava le sei e mezzo. Mi girai e mi ravvolsi nelle coperte.
Il ronzio dell'aria condizionata non riusciva a soffocare i rumori di un vicino che faceva scorrere l'acqua in bagno, perciò accesi la radio. Un concerto per pianoforte in mi bemolle di Mozart si diffuse nella stanza buia. In realtà, era troppo vivace per conciliare il sonno, tuttavia ciò che volevo era proprio il rumore, o meglio, un rumore di mia scelta.
Non so se fu a causa di Mozart o della stanchezza eccessiva, comunque mi addormentai di nuovo, e se sognai, me ne dimenticai.
 
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