Capitolo 45

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petite88
view post Posted on 22/1/2008, 23:17





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Durante il giorno mi esercitai a usare il fucile e, la notte, scesi nei sotterranei coi ratti mannari.
Sembrava che la tenebra assoluta della galleria volesse comprimere il fascio luminoso della mia torcia elettrica fino a estinguerlo. Sollevai una mano a toccarmi la fronte, e non vidi più un accidente di niente, tranne le buffe forme bianche create dagli occhi in assenza di luce. Indossavo un elmetto munito di lampada frontale, che in quel momento era spenta perché così mi avevano chiesto di fare i ratti mannari. Tutt'intorno a me udivo grida, gemiti, schioccare di ossa e un rumore strano, come quello prodotto da una lama sfilata dalla carne: i ratti mannari si stavano trasformando per assumere forma animale, e la metamorfosi sembrava dolorosa, molto dolorosa.
Mai, in vita mia, avevo tanto desiderato di poter vedere qualcosa. Non poteva essere così orribile, no? D'altronde, una promessa è una promessa.
E poi, era soltanto l'ultimo atto di una delle mie settimane più strane. Ammesso che fosse davvero l'ultimo atto.
«Adesso puoi accendere la luce», disse Rafael, il capo dei ratti.
Obbedii all'istante e i miei occhi parvero nutrirsi della luce. Nell'ampia galleria dal soffitto piatto, i dieci ratti mannari che avevo visto mentre erano ancora in forma umana si erano suddivisi a gruppetti. I sette maschi indossavano jeans tagliati sopra il ginocchio: soltanto due portavano anche T-shirt molto larghe. Le tre femmine indossavano vesti amplissime, che ricordavano i camici delle partorienti. Erano tutti irsuti e i loro occhietti neri e rotondi scintillavano alla luce.
Edward, che mi si era avvicinato, li fissava, ma con un'aria del tutto distaccata.
Gli toccai un braccio, sperando di non avere messo in pericolo i licantropi. Non ero una cacciatrice di taglie, come avevo detto a Rafael, ma Edward talvolta lo era.
«Siete pronti?» domandò Rafael, il ratto mannaro dal mantello nero e liscio che avevo incontrato nella segreta.
«Sì», risposi.
Edward annui.
Mentre i ratti mannari si sparpagliavano, incamminandosi, dissi, senza rivolgermi a nessuno in particolare: «Credevo che le grotte fossero umide...»
Un piccolo licantropo, uno dei due in T-shirt, rispose: «Le Cherokee Caverns sono morte».
«Non capisco...»
«Le caverne vive hanno acqua e depositi in formazione. Una caverna viene definita 'morta' quand'è arida e non vi si forma nessun deposito.»
«Oh...»
L'altro scopri i grossi denti in quello che mi parve un sorriso. «È più di quanto desideravi sapere, vero?»
«Non siamo qui per una visita guidata, Louie», si girò a sibilare Rafael.
«Perciò adesso state zitti tutti e due.»
Con una scrollata di spalle, Louie accelerò, precedendomi. Nella sua forma umana, era l'uomo dagli occhi scuri con cui avevo scambiato una lunga occhiata al ristorante, subito prima del colloquio con Rafael.
Una delle femmine - avevo scoperto che si chiamava Lillian - aveva il mantello quasi grigio ed era un medico. Infatti portava in spalla uno zainetto pieno di farmaci: a quanto pareva, i licantropi si aspettavano che Edward e io non uscissimo indenni dall'impresa. Se non altro, significava anche che non escludevano la nostra sopravvivenza, sebbene io stessa cominciassi a nutrire dubbi in proposito.
Due ore più tardi, la galleria divenne così bassa che non mi fu più possibile camminare eretta.
Finalmente capii la funzione dell'elmetto: sbattei la testa contro la roccia almeno mille volte. Senza quella protezione, avrei perso conoscenza molto prima d'incontrare Nikolaos.
I ratti, invece, sembravano conformati per muoversi nel sottosuolo: si adattavano benissimo all'ambiente, insinuandosi, appiattendosi e arrampicandosi con una grazia strana, che naturalmente Edward e io non potevamo imitare neppure alla lontana.
Alle mie spalle, Edward imprecò sottovoce: coi suoi dodici centimetri d'altezza in più rispetto a me si trovava dolorosamente in difficoltà. Se io ero tormentata da una sofferenza continua alla base della schiena, lui doveva essere in condizioni ancora peggiori. Comunque, in alcuni tratti la grotta si dilatava abbastanza da consentirci di rialzare la schiena; aspettavo quei tratti con ansia sempre crescente, come un tuffatore che non vede l'ora di riemergere.
La densità del buio si attenuò a causa di una luce fioca che s'intravedeva in lontananza, guizzante come un miraggio, allo sbocco della galleria.
Accanto a noi, Rafael si accovacciò, poi, mentre Edward sedeva sulla roccia asciutta e io lo imitavo, disse: «Quella è la prigione sotterranea. Noi aspetteremo qui finché non sarà quasi buio: se per allora non tornerete, ce ne andremo. Dopo la morte di Nikolaos vi aiuteremo, se potremo».
Annuii, e il raggio luminoso della lampada frontale sull'elmetto oscillò, accompagnando il movimento della mia testa. «Grazie per averci aiutati.»
Rafael scosse la testa allungata da roditore. «Vi ho accompagnati alla porta dell'inferno. Non ringraziarmi per questo.»
Guardai Edward, il cui viso era sempre impenetrabile. Se era interessato a ciò che Rafael aveva appena detto, non ne diede segno. Pareva che avessimo appena discusso della lista della spesa.
Poco dopo, lui e io ci acquattammo presso l'accesso alla segreta. Le fiamme oscillanti delle fiaccole apparivano incredibilmente luminose in contrasto con l'oscurità della galleria. Edward cingeva con un braccio l'Uzi che portava a tracolla. Io impugnavo il fucile a canna mozza e indossavo il mio armamento consueto, composto da due pistole e due pugnali, nonché da una Dernier, infilata nella tasca della giacca, che Edward mi aveva regalato.
Nel consegnarmela, aveva detto: «Scalcia come una figlia di puttana, ma, se la spingi sotto il mento di qualcuno, gli stacca la testa». Buono a sapersi.
Fuori era giorno, quindi i vampiri dovevano essere innocui, però Burchard era senz'altro presente e, se lui ci avesse visto, anche Nikolaos lo avrebbe saputo, in qualche modo. A quel pensiero, mi si accapponò la pelle.
Entrammo, pronti a massacrare e a mutilare, ma trovammo la stanza vuota. Tutta l'adrenalina accumulata mi accelerava il respiro e le pulsazioni.
Alla vista del luogo in cui Phillip era morto in catene, anche se ormai ogni traccia era scomparsa, ripulita alla perfezione, fui costretta a reprimere l'impulso di accarezzare la pietra.
«Anita...» chiamò Edward, sottovoce.
Accorgendomi che era già salito alla porta, mi affrettai a raggiungerlo.
«Qualcosa non va?»
«È là che è stato ucciso Phillip.»
«Concentrati sulla missione. Non voglio morire perché stai sognando a occhi aperti.»
Soffocai la rabbia che mi aveva assalito, perché sapevo che aveva ragione.
La porta si aprì senza opporre la minima resistenza. Rammentavo che Jean-Claude l'aveva schiantata, ma probabilmente era stata sostituita. Mi appostai a sinistra; mentre Edward stava a destra. Il corridoio era deserto.
Costeggiando la parete, Edward avanzò. Col fucile nelle mani sudate, lo seguii nella tana del drago. In verità, non mi sentivo molto simile a un cavaliere e infatti non avevo nessun destriero scintillante. O era una scintillante armatura?
Comunque eravamo lì. E io mi sentivo il cuore in gola.
 
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